Leggo con interesse e stupore gli articoli che da qualche tempo, soprattutto in estate, appaiono su diverse testate giornalistiche, scrivendo della difficoltà per gli imprenditori nel reperire personale, che nonostante la crisi economica e la disoccupazione, è “quasi impossibile” da trovare, in particolare nel settore della ristorazione. E ogni volta segue una piccata replica in merito alle condizioni economiche o di orario proposte, definite inaccettabili.
Un ricordo personale
Questo mi fa tornare alla mente un’esperienza vissuta quando, all’età di 16 anni, studente sbarbatello di un liceo classico, per pagarmi la benzina della moto, partivo dal mio paesello di provincia per andare ai mercati generali di Torino per propormi come scaricatore.
Le regole erano molto semplici: ci si presentava tutti alle 23:00 e, se entro le 23:15 non si era stati scelti da uno dei caporali presenti, si poteva ritornare a casa. La paga era la metà di quella dei lavoratori fissi, e se si rovinava la merce, bisognava pagarla. Si lavorava senza soste sino alle 12, con qualunque tempo. E soprattutto, niente guanti che potessero rovinare la frutta.
L’ambiente
Parcheggiata ogni sera la mia moto in un luogo distante, al sicuro, mi univo speranzoso al gruppo di “aspiranti” che stazionavano nel parcheggio davanti ai tir provenienti da tutta Italia. C’era di tutto: italiani, immigrati, giovani e meno giovani, in un caos di lingue miscelate all’italiano. L’arrivo dei “capi” era denso di tensione e segnalato dal calare improvviso: tutti attendevano il breve cenno del dito che li avrebbe autorizzati a lavorare.
Il lavoro
Quando non dovevo tornare a casa perché scartato, iniziava il lavoro che consisteva nello scaricare dai tir alla massima velocità frutta o sacchi di iuta pieni di patate. Le cassette andavano prese almeno a tre alla volta con la punta delle dita e passate ai compagni della fila, sperando di non trovare, una volta aperto il telone del tir, le cassette incastrate tra loro a causa dei movimenti del camion. Lì iniziava una lotta, spesso perduta, per districarle senza romperle o farne cadere il contenuto.
Le sfide
La parte peggiore erano le angurie: venivano stoccate in camion refrigerati dove la temperatura polare interna del tir faceva a botte con quella esterna, e in più erano spesso umide, per cui occorreva una fatica immensa nel lanciarle ai compagni senza farle cadere a terra, continuando a sudare tra caldo e freddo. La ciliegina sulla torta erano i sacchi da 25 chili di patate: potevi stare sul cassone prendendo due sacchi alla volta e lanciarli agli altri sotto, oppure stare in strada e prenderli al volo. In entrambi i casi, la fatica era veramente immane per chi, come me, non era abituato a sostenere tali sforzi.
Riflessioni
Passai in questo luogo i mesi delle vacanze estive di due anni scolastici, poi il mercato cambiò luogo, come spesso avviene nelle città, e io finii il liceo dedicandomi all’università. Speravo che quel lavoro massacrante prima o poi sarebbe finito e ai ragazzi che avevo lasciato dietro di me sarebbero stati riconosciuti dei diritti e non solo doveri. Ma quando leggo questi articoli, mi rendo conto, a distanza di quasi 40 anni, che nulla è cambiato: chi offre lavoro lo vuole fare al minor costo e chi ne ha bisogno lo cerca con il massimo ritorno economico.
La scelta
Quindi che fare? Accettare un lavoro pagato poco e fare gavetta o rifiutarlo continuando a cercare? Resta a noi la scelta, ma occorre essere consapevoli che, sì, tutto sommato, oggi noi ci possiamo creare un futuro diverso, ma impegno, sudore e sacrifici sono la base di qualunque lavoro, sia fisico sia mentale. Forse un po’ di allenamento prima della gara della vita non guasterebbe.